4. Il "lavoro del dolore"

Vorrei sottolineare in via preliminare che la condizione della donna varia profondamente nell'Europa meridionale, a seconda, fra l'altro, del diverso contesto familiare in cui si trova a vivere. E' noto che in queste regioni si possono trovare usanze assai diverse riguardo il matrimonio, la più importante delle quali consiste nella residenza della coppia, che può essere di tipo virilocale o uxorilocale. Nei contesti uxorilocali le donne hanno tradizionalmente potuto contare su un appoggio considerevole da parte delle loro famiglie: esse vivevano in stretto contatto con i loro genitori e le sorelle e non abbandonavano i loro luoghi nativi, le amicizie e i consanguinei. Al contrario, come ha osservato Loizos, nei contesti virilocali le donne "al momento del matrimonio si trovano ad affrontare un'allontanamento dalla loro parentela e di conseguenza una perdita della loro stessa identità, in quanto fondata sui rapporti di parentela, e il ritiro in una esistenza muta", mentre "gli uomini sembrano identificarsi maggiormente con la cerchia familiare e usano tale identificazione per derivarne prestigio più delle donne" (Loizos and Papataxiarchis 1991: 15). La letteratura antropologica propone esempi ben noti di quest'ultima situazione. Nel suo studio sui gruppi consanguinei patrilineari albanesi dei Gheghi, Whitaker fa notare che le donne non si integravano mai nel clan dei loro mariti (Whitaker 1976: 195-203). Inoltre, dal momento che questi clan erano tradizionalmente esogami ed erano soliti scambiarsi le donne come mogli allo scopo di creare alleanze, le donne si trovavano spesso in una situazione molto difficile quando queste alleanze si interrompevano. In alcuni casi, le donne giungevano ad uccidere i loro stessi figli "come disperata via d'uscita dalla loro situazione" (Peristiany 1976: 11). A parte questi casi estremi, è noto che in contesti virilocali la moglie era spesso considerata "una straniera" nella cerchia familiare. Peristiany scrive: "I conflitti e le tensioni interne a queste famiglie fanno sì che il 5.4 % delle mogli (su un totale di 195 casi esaminati) abbandonino le loro case, mentre un numero considerevole soffre di nevrosi o 'stati confusionali'" (1976: 18).

In questi tipi di contesto virilocale, dove le donne erano spesso confinate a una condizione socialmente muta e marginale, la sfera dell'attività religiosa e rituale costituiva di fatto l'unica opportunità disponibile alle donne per esprimere e forse anche risolvere i loro problemi psicologici. Questo punto può essere illustrato citando come esempio il rito delle Anastenaria nella Macedonia greca. Secondo la tradizione locale, le Anastenaria sono una festa religiosa che celebra il recupero delle sacre icone di San Costantino e Sant'Elena compiuto dai Traci nel XII secolo quando i Bulgari diedere fuoco alla chiesa dedicata ai due Santi. Loring Danforth, tuttavia, ha recentemente osservato che questo rito musicale religioso è allo stesso tempo un "sistema di psicoterapia rituale […] che ha come scopo la diagnosi e il trattamento di una lunga lista di malattie" (Danforth 1991: 99): in particolare, è un potente mezzo in mano alle donne per esprimere e risolvere i conflitti personali e sociali che causano il tipo di nevrosi cui fa riferimento Peristiany. Secondo Danforth, le donne eseguono questo rito terapeutico come parte della devozione a San Costantino e Sant'Elena allo scopo di rappresentare ed elaborare i loro dolori e gli intimi conflitti che derivano dalle loro difficili relazioni con le suocere. All'interno delle cerchie familiari di questa comunità virilocale, infatti, "la posizione delle nuore è strettamente subordinata a quella delle suocere" (103). In tal modo, il rito delle Anastenaria offre alle donne simboli e modelli di azione - ad esempio, danzare sorreggendo un'icona dei Santi Costantino ed Elena o indossando un fazzoletto rosso, camminare sul fuoco, o cantare la storia di Mikrokostantinos. Quest'ultimo canto, in particolare, esprime simbolicamente il conflitto tra suocere e nuore ed è considerato da Danforth un modo efficace di portare alla luce e risolvere questo conflitto. In conclusione, come afferma Danforth, "la partecipazione di una donna alle Anastenaria può di effettivamente ristrutturare le sue relazioni familiari in modo tale da risolvere i conflitti esistenti nella sua relazione con la suocera. Diventando un'Anastenarissa, una donna ottiene il supporto del marito, dal momento che egli è costretto ad impegnarsi pubblicamente ad aiutarla a riacquistare la salute" (109).

  La danza delle Anastenarisse (mov. file - 412 kb)

Il caso delle Anastenaria è un buon esempio del tipo di "lavoro del dolore" compiuto all'interno della sfera rituale-religiosa che ho citato sopra. Un caso molto simile è dato dal fenomeno del tarantismo, una terapia basata sulla musica e la danza che era un tempo particolarmente diffusa nella Penisola Salentina. "Secondo l'interpretazione di De Martino il tarantismo mira a rappresentare simbolicamente e ad esternare una situazione critica (cioè un nodo psicologico che non è più possibile ricordare e che porta quindi alla nevrosi) che interessa soprattutto le donne nel periodo della pubertà. In questa prospettiva, il tarantismo svolge un ruolo molto importante nella società salentina, poiché consente la rappresentazione simbolica e la socializzazione di un profondo conflitto individuale che può essere in tal modo comunicato ed esorcizzato nei suoi aspetti più pericolosi" (Magrini 1994: 71-72). Per le donne marginali e "mute" del Salento, che non possedevano altro mezzo culturale per l'espressione del loro dolore, il tarantismo agiva come meccanismo simbolico per l'espressione catartica del malessere e come cornice concettuale che consentiva di interpretare tale malessere. Il tarantismo aveva inoltre una forte componente religiosa, dal momento che San Paolo di Galatina era considerato il protettore delle tarantate e veniva a volte identificato con la stessa taranta (De Martino 1976: 106). I pellegrinaggi a Galatina e la devozione a San Paolo erano parte del comportamento delle tarantate: durante la festa di San Paolo le donne colpite da tarantismo potevano esibire la loro malattia in pubblico con il supporto delle loro famiglie.

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Una tarantata parla con il ritratto di San Paolo durante la terapia

Infine, vorrei menzionare brevemente un altro caso di "lavoro del dolore" nel contesto di un rito religioso che si celebra in Campania. Tra la folla dei devoti che ogni anno si recano al Santuario della Madonna dell'Arco a Pomigliano d'Arco, vicino a Napoli, nel giorno del Lunedì dell'Angelo (il lunedì dopo Pasqua), ho potuto osservare donne che, non appena sono entrate in chiesa e hanno cominciato ad avvicinarsi alla sacra icona della Madonna, sono cadute a terra gridando. In tal modo esse hanno portato in pubblico una crisi psicologica privata che è stata tuttavia percepita dalla maggior parte dei fedeli che partecipavano all'evento come parte del comportamento devozionale.

Naturalmente, i tre casi citati sono differenti fra loro, se non altro perché appartengono a diverse realtà sociali ed esprimono esigenze e problemi diversi. Essi hanno tuttavia un elemento in comune, vale a dire, la scelta di un evento rituale-religioso come momento privilegiato del processo di elaborazione e manifestazione pubblica della sofferenza da parte delle donne: in queste occasioni, il comportamento delle donne che "danno spettacolo di sé" - di fronte sia ai propri familiari che a sconosciuti - ha in se stesso un effetto catartico ed è percepito come socialmente accettabile, anzichè riprovevole.

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Devoti all'ingresso del Santuario della Madonna dell'Arco

Allo stesso tempo, queste pratiche rituali-religiose costruiscono un'immagine della femminilità che è associata all'espressione di una sofferenza di tipo psicologico. Ne deriva che il "lavoro del dolore", anche se non è esclusivo delle donne, viene pensato come un'attività connessa a un genere, cioè come un comportamento particolarmente appropriato al mondo femminile. Tale conclusione concorda con le ben note associazioni tra femminilità e sfera emotiva (cfr. Lutz 1986) e tra femminilità e sofferenza: "la posizione delle donne nel ciclo della vita è percepita come ciò che assegna loro quote ineguali di sofferenza insieme ad una comprensione privilegiata della sofferenza […] Come madre, una donna ha mosso il primo passo nella gerarchia della 'comprensione del dolore', una comprensione che costituisce il territorio privilegiato delle donne" (Caraveli-Chavez 1980: 146).

L'attitudine delle donne a comprendere ed elaborare il dolore è testimoniata prima di tutto dalla loro capacità di confrontarsi con la morte. Il rito del lamento funebre è infatti un caso emblematico del "lavoro del dolore" femminile. Questo rito era comune in molte regioni del Mediterraneo molto prima dell'avvento del cristianesimo: se ne trovano esempi nella Bibbia e nell'Iliade, nell'antico Egitto così come nell'antica Roma, e questi esempi includono anche casi di lamenti maschili (cfr. De Martino 1975: 195, 199). Il primo cristianesimo considerava il rito del lamento come un fenomeno in conflitto col messaggio della nuova religione. Infatti i vangeli raccontano che Cristo, durante la sua salita al Calvario, avrebbe replicato ai lamenti delle donne con le seguenti parole: "Figlie di Gerusalemme, non piangete me, ma piuttosto voi stesse e i vostri figli" (Luca, 23, 27-29). Inoltre, i vangeli non ritraggono la madre di Cristo nell'atto di lamentare la morte del figlio, ma piuttosto come una persona assorbita silenziosamente nel proprio dolore. E' necessario ricordare, tuttavia, che il fenomeno del sincretismo influenzò particolarmente lo sviluppo del cristianesimo in epoca romana: molte pratiche rituali che non poterono essere sradicate furono assorbite nella nuova religione. Negli Acta Pilati del quinto secolo la madre di Cristo è rappresentata nell'atto di eseguire il lamento funebre per Gesù - un'immagine che fa pensare che questo tipo di rito fosse stato in quel tempo già accettato dalla nuova religione. Possiamo quindi assumere che la pratica del lamento funebre non sia mai stato completamente interrotta fino al nostro secolo, quando fu documentata e analizzata da diversi studiosi (cfr. De Martino 1975, Caraveli-Chavez 1980, Danforth 1982, Méndez 1988, Seremetakis 1991).

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Una lamentatrice (Lucania)

La documentazione etnografica ha confermato che nel nostro secolo il lamento funebre è stato una pratica essenzialmente femminile nel mondo euro-mediterraneo cristiano. Ciò sembra corroborare un commento di Caraveli-Chavez, secondo cui "la capacità della donna di riprodursi […] la pone direttamente a contatto anche con il mondo dei morti, poiché essa diventa più vulnerabile dell'uomo al dolore e alla perdita dei cari" (1980: 146). Secondo questa opinione, le donne sarebbero naturalmente predisposte, in confronto agli uomini, ad affrontare il dolore più grande, cioè quello causato dalla perdita di una persona cara (1). Le donne riescono a sopportare il dolore profondo del lamento per la persona defunta e perfino a far mostra di sé per esprimere il loro dolore. Questo "lavoro del dolore" non è un segno di debolezza: al contrario, l'elaborazione del dolore attraverso il lamento funebre è un duro lavoro, un lavoro che nelle comunità in cui tutti si conoscevano era essenziale, nella misura in cui aveva un significato profondo sia per i familiari del defunto che per la intera comunità.

La morte scuote e ristruttura la comunità, che deve sopportare la perdita e reagire ai sentimenti di paura, dolore, e perfino di protesta contro Dio ad essa connessi: la tecnica del lamento, che dà voce e forma ai diversi sentimenti relativi alla perdita, è concepita allo scopo di erigere una separazione permanente tra i morti e i vivi e di trasformare la paura della persona morta - che si crede contamini il mondo dei vivi - in un sentimento di affettuoso ricordo del defunto. In questo senso, il lamento funebre può essere considerato come " un processo attraverso il quale viene costruita una nuova realtà e viene finalmente accettata la morte " (Danforth 1982: 141).

Ma il suo significato potrebbe anche andare oltre questa funzione di base, per collegarsi ad altri aspetti specificamente femminili. C. Nadia Seremetakis ha sottolineato il carattere fortemente connesso a dinamiche di genere del lamento rituale nell'area interna di Mani, una regione del Peloponneso (Grecia), e il ruolo del lamento nell'asserire il potere delle donne in questa società: "Le donne rappresentano la violenza della morte attraverso il loro stesso corpo. I loro atteggiamenti, gesti, ed espressioni facciali funzionano come 'testi corporei' attraverso i quali l'esperienza della morte come passaggio e disordine viene rivissuta per conto del defunto, ora silenzioso e defunto [...]. Tale esposizione della femminilità in congiunzione con l'ingresso rituale nello spazio della morte ha il significato di una rottura delle limitazioni di genere che caratterizzano il mondo dei vivi" (1991: 74). Allo stesso modo, Seremetakis sostiene che il kláma(la cerimonia del lamento femminile) funzionava come una vera istituzione, più che come un evento occasionale, e che possedeva, indirettamente, potere politico e giuridico: la sua opposizione allo yerondikí (il concilio composto di soli uomini) "esprimeva una pressante critica femminile al controllo formale e informale dell'ordine sociale da parte degli uomini" (1991: 127).


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